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È online il numero 02/2020 di Chitarra Acustica, di cui potete leggere l’editoriale di presentazione e che potete sfogliare, scaricare o richiedere nella sua versione cartacea su fingerpickingshop.com o nei migliori negozi di strumenti musicali. Se guardi Sanremo non vai all’inferno Ogni anno la stessa storia: il Festival di Sanremo ha la capacità di dividere uomini e opinioni. Questa divisione non è frutto di una mediazione ponderata, o di un’analisi dei pro e contro di uno o dell’altro schieramento. È una spaccatura netta, frequentata dai favorevoli o dagli assolutamente contrari. Le motivazioni non sono comprensibili: si difende la propria idea utilizzando affermazioni o dinieghi che non hanno alla base concrete e argomentate motivazioni, ma semplici esternazioni in cui si afferma la propria scelta come la migliore, e quella altrui come la peggiore. Anzi, deprecabile e ingiustificabile. Prendere posizione significa ottenere il cinquanta per cento di consensi, ma altrettante contestazioni. Perché è proprio così: l’Italia si spacca di fronte a questo evento esattamente a metà, dimenticando problemi più ‘ameni’, come la prescrizione, il costante declino del nostro PIL, il virus appena arrivato fresco fresco dalla Cina… dove tutti, pochi mesi fa, siamo andati a cercare chitarre ed emozioni. Per queste ultime, bastava spostare la fiera di Shangai di qualche mese per rischiare di portarne a casa in quantità… Ma io sono uno di quelli che segue con curiosità e piacere l’evento sanremese. E non è colpa dell’età: questo piacere lo coltivavo anche da giovane. Infatti, quand’ero un ribelle scapestrato – e poco sono cambiato da allora – condividevo con gli amici questa tre giorni (all’epoca erano solo tre le giornate) e tra focaccia messinese, arancini e birra, si discuteva e si costruivano pronostici. Era l’occasione per un nuovo incontro. Una sorta di secondo tempo del Natale. Una piacevole ripresa delle festività appena passate, in cui ci si vedeva per il piacere di stare insieme, fomentando e analizzando quelle polemiche che da sempre hanno accompagnato il festival. L’evento era l’attrazione, la musica il contorno, forse l’alibi che offriva concitati argomenti di confronto. Dopo tanti anni non è cambiato nulla. Non tutto è stato rose e fiori: ci sono stati momenti tristi, molto tristi, da dimenticare; così come episodi e canzoni di grande livello e personaggi indimenticabili. Perché allora etichettare tutto come negativo o positivo? Si finisce come in politica, dove si ragiona per correnti e non per idee, ignorando il bene e il male che c’è in ognuno di noi. Il festival non pretende di competere con i concerti brandeburghesi di Bach o le improvvisazioni di Keith Jarrett a Colonia. È solo un modo per farci ascoltare un po’ di musica, alcune volte scadente, altre volte di buon livello, arricchita da storie, polemiche, curiosità e pettegolezzi. Certo, quest’anno non ho goduto delle peripezie tecniche di qualche emulo di Tommy Emmanuel o del tapping ritmato di qualche nostalgico di Michael Hedges. Per fortuna… Ma… devo confessare che mi ha molto divertito la spensieratezza di Francesco Gabbani, l’estrosità di Achille Lauro, la personalità di Tosca, l’arroganza di Morgan, la melanconia di Jannacci figlio. Insomma tutti hanno avuto un ruolo e tutti si sono messi in gioco, regalando a questo paese un po’ di leggerezza, di cui da tempo si sentiva bisogno. Grazie Sanremo, al prossimo anno. E buon fingerpicking! Reno Brandoni L'articolo È online “Chitarra Acustica” n. 02/2020 proviene da Fingerpicking.net.
È online il numero 01/2020 di Chitarra Acustica, di cui potete leggere l’editoriale di presentazione e che potete sfogliare, scaricare o richiedere nella sua versione cartacea su fingerpickingshop.com o nei migliori negozi di strumenti musicali. La cassa veloce (di Reno Brandoni) – Molti di voi sanno di cosa parlo. La vita del musicista in parte si svolge all’interno di un supermercato. Almeno la mia. Non avendo orari fissi di lavoro, il tempo può essere gestito con flessibilità e così, di solito, l’onere dell’approvvigionamento ricade sui più ‘fannulloni’, quelli che nella loro vita hanno imparato l’arte e non l’hanno messa da parte. È vero, anche gli impiegati e i professionisti, obbligati da orari perentori, si dedicano a questa attività. Alcuni con piacere, altri costretti dalla moglie – solitamente il sabato – che pretende una più partecipata condivisione della vita familiare. Ma questi ultimi li riconoscerete subito: sono comunemente quelli dal carrello con la ruota difettosa, annunciati dal rumore fastidioso che generano durante il percorso, accompagnati dal brontolio della compagna ed evitati per l’imponderabilità della traiettoria del loro mezzo di raccolta. La differenza evidente tra le due specie di homo domesticus si percepisce dalla quantità di prodotti che giacciono nel carrello. I primi, i ‘nullafacenti’, hanno pochi articoli: giusto il necessario per completare la giornata; gli altri, invece, si muovono raccogliendo il necessario per l’intera settimana o – peggio – per uno o più mesi, vista l’incalcolabile quantità di mercanzie che trascinano a fatica verso le casse per saldare il loro debito. Finalmente, le casse. Per noi, supermarket addicted, il momento del pagamento è cruciale: è l’attesa snervante, che ci fa sentire dilapidatori di tempo essenziale. Il giro tra gli scaffali, lo viviamo in maniera produttiva: è un momento di ricerca e analisi, che ci rende partecipi del consumismo e della società, che spesso dimentichiamo persi dietro alle nostre chitarre. Diciamo che è una momentanea immersione nella realtà. La sosta per il pagamento, invece, trasforma in ansia e nervosismo questa quotidiana abitudine, rendendola insopportabile e spesso impraticabile. Lo spirito del commercio, come sapete, non si arrende. E analizza con precisione ogni bisogno, pronto a soddisfarlo per rendere l’esperienza della spesa la più piacevole possibile. Ecco allora l’invenzione del secolo, la ‘cassa veloce’, accompagnata da un sottotitolo che farà comprendere a tutti come sia stata inventata esclusivamente per noi adepti quotidiani alle spese essenziali: «max 15 pezzi». La distinzione tra pezzi e articoli deve essere ben chiara a tutti. Se prendo tre pacchi di fusilli, sono tre pezzi, nonostante si riferiscano a un solo e unico ‘codice articolo’. Questa precisazione è essenziale, perché spesso le nostre ‘casse veloci’ sono assaltate da furbetti, che trovano le mille e una scusa per rendere compatibili i loro acquisti con l’imperativa selezione ordinata da quel «max 15 pezzi». C’è il tipo dell’uno in più: «Quindici o sedici che differenza fa?» Fa, fa! E ci sono quelli che viaggiano ‘borderline’, sollevando delle eccezioni che mettono in discussione tutto il sistema: «La confezione con sei bottiglie di acqua è un pezzo o sei pezzi?» Le teorie si dividono in vari teoremi: c’è chi sostiene che vale il numero di barcode sparati, che in questo caso sarebbe unico; c’è invece chi ribadisce la teoria dei pezzi: sei bottiglie sono sei pezzi. Le eccezioni rappresentano varchi alle regole: se non si può confermare un principio, allora tutte le violazioni del principio stesso sono valide. C’è anche chi interviene sostenendo che a questo punto il pacco da centocinquanta cotton fioc non potrebbe mai essere acquistato; ma viene subito ignorato per il fatto che… è un bassista: lo si capisce dalla statura, dalla curvatura della schiena e dalle osservazioni che fa… ovviamente ‘fuori tempo’. Nel supermercato che frequento si è creata una specie di ‘dogana’: un controllo attento ai carrelli della spesa che si avvicinano alle casse veloci, cercando di portare ordine e disciplina all’interno del market, e rendendo meno traumatica l’esperienza del pagamento. Per quanto impegno ci si metta, però, il risultato è modesto per mancanza di un’autorità che punisca severamente i trasgressori. Così, soprattutto il sabato, le file di carrelli con ben più dei quindici pezzi permessi si affollano davanti alle ‘casse veloci’, rendendo inutili i disperati comunicati della dirigenza del luogo: «Apre cassa 4», «Cassa 7 è libera». I carrelli sono tutti in fila per godere di quel rivoluzionario sistema di pagamento e per dimostrare che, in barba alle regole, nessuno potrà ostacolare un diritto se il divieto non è giuridicamente sancito e disciplinato. Perdendo di vista il più importante e fondamentale principio della nostra civiltà: l’educazione. L’eloquente esempio delle ‘casse veloci’, si può applicare a molti dei momenti che viviamo nella nostra confusa quotidianità. Quest’estate ero tra il pubblico durante un fantastico ed emozionante concerto. Era pomeriggio e il concerto, gratuito, si teneva in una romantica laguna al calar del sole. Tutti in silenzio seduti a terra, eravamo in trance catturati dalla musica, quando un signore – neanche tanto giovane – si è posizionato al centro della platea. In piedi e con le braccia conserte, osservava beato la performance. Una gentile ragazza dell’organizzazione si è avvicinata e, con fare elegante, gli ha chiesto gentilmente di spostarsi e sedersi. Il signore, sgarbatamente, ha domandato alla ragazza chi era lei, per poter dare a lui quell’ordine. Nessuna legge gli impediva di stare in quella posizione, pertanto non si sarebbe spostato. Si vedeva che il signore era molto ‘colto’: doveva avere a casa almeno la connessione a Internet da 1 gigabyte e uno smartphone sempre connesso, con almeno 50 gigabyte di traffico garantito. La ragazza si è rotirata in buon ordine, con le guance rosse per la vergogna. La distinzione tra regola e diritto è fondamentale: la prima ha a che fare con la morale e l’etica; la seconda con il divieto e il permesso. Ora, dire che ciò che non è vietato è permesso, può risultare ‘saggio’, ma spesso è inopportuno. Laddove il limite diventa impraticabile, bisognerebbe introdurre le regole del buon senso e del rispetto, che mi pare si siano smarrite da tempo. Reno Brandoni L'articolo È online “Chitarra Acustica” n. 01/2020 proviene da Fingerpicking.net.
È online il numero 03/2020 di Chitarra Acustica, di cui potete leggere l’editoriale di presentazione e che potete sfogliare, scaricare o richiedere nella sua versione cartacea su fingerpickingshop.com o nei migliori negozi di strumenti musicali. Ai tempi del virus Conoscete l’arte del kintsugi? Di solito, quando si rompe qualche cosa la gettiamo via. La pratica giapponese del kintsugi fa l’esatto opposto: evidenzia le fratture e le impreziosisce aggiungendo valore all’oggetto rotto. Questo risultato si ottiene riunendo i pezzi e ricostruendo l’oggetto, utilizzando oro o argento liquido ed evidenziando le nuove nervature create. Non si nascondono le cicatrici, anzi le si esaltano dopo averle impreziosite con il metallo pregiato. Così ogni pezzo riparato diviene unico e irripetibile, per via della casualità con cui la frattura si realizza. È un’arte magica, che dà valore alle cose che altrimenti non avrebbero più valore ma verrebbero scartate, dimenticate, eliminate. In momenti come questi, in cui le nostre certezze vengono frantumate da eventi imprevedibili e ingestibili, l’arte del kintsugi non può che offrirci una buona occasione di riflessione. Non tutto quello che sembra ‘andato a pezzi’ risulta veramente così: può diventare un passaggio indispensabile, di cui certamente faremmo tutti a meno, ma che può regalarci un attimo di riflessione per comprendere la fragilità di un sistema basato sull’indifferenza, sul consumismo, sulla frenetica ricerca dell’apparire. L’evento che sta sconvolgendo il nostro quotidiano limita proprio la parte più esibizionistica del nostro vivere, distruggendo il concetto essenziale della libertà: la condivisione. Quando tutto sembra perso, la riorganizzazione del proprio tempo diventa ricchezza. Trasforma il convulso vivere in un riflessivo spazio alla ricerca di essenza e piacere. La condivisione che credevamo perduta si è solo trasformata: le famiglie tornano a spendere il loro tempo con i figli, si rispolverano libri e strumenti musicali, l’aberrazione del nulla si riempie di inimmaginabili stimoli. Idee che cambieranno forse per sempre il nostro futuro e il nostro modo di vivere. Superato lo sconforto ci si riorganizza. Mia figlia, che lavorava come insegnante di sostegno a Milano, ha temporaneamente abbandonato la scuola per i motivi di cui tutti siamo a conoscenza. Ieri pomeriggio, utilizzando una macchina da cucire che gli avevamo regalato, ha realizzato una custodia per il suo Kindle, recuperando così una meravigliosa arte forse dimenticata, ma sicuramente sottovalutata. Le ho chiesto di realizzarmi un portapenne, e questa sera mi ha mandato una foto del prodotto richiesto, dimostrando manualità e gusto. Pur se non possiamo vederci di persona e non possiamo passare la nostra giornata insieme, io da Bologna e lei da Milano abbiamo iniziato a condividere parte del nostro tempo e delle nostre idee, come forse non avevamo mai fatto. Così nascono i progetti. Ogni disastro diventa un’opportunità e si cresce, nonostante il dubbio e l’incertezza del quotidiano. Ho visto, in giro per i social, tanti amici rimboccarsi le maniche utilizzando il loro tempo per completare lavori sospesi, o concedersi l’occasione della vita realizzando un desiderio tenuto sepolto per tanto tempo, come quello – per esempio – di imparare a suonare uno strumento. Il tutto accompagnato da un entusiasmo che credevo perduto. Questo periodo oscuro finirà, lasciando per strada i cocci di un’esistenza turbata e sconvolta. Starà a noi raccogliere i pezzi e, come nella tecnica kintsugi, legarli insieme con la cosa più preziosa che possediamo: il nostro tempo. Così il futuro non sarà ‘pianto e stridore di denti’, ma gioia e speranza e – soprattutto – consapevolezza. Una lezione che non dimenticheremo mai… almeno si spera. Buon fingerpicking! Reno Brandoni L'articolo È online “Chitarra Acustica” n. 03/2020 proviene da Fingerpicking.net.
Poi fu silenzio e fiori di ciliegio coperti di neve. Due cose imprevedibili. Nessuno aveva memoria di un evento del genere, forse solo i più anziani avrebbero potuto raccontarci le follie delle stagioni. Avrebbero potuto raccontarci… Perché quel silenzio, quell’altro imprevedibile evento, aveva nascosto a molti il piacere dei ricordi, facendoci dimenticare le parole: anziano, saggio, esperto, sapiente. Nel tempo avremmo anche dimenticato il perché di quelle chitarre lasciate distese sul divano, come appena suonate, abbandonate senza ordine e senza cura. Il silenzio è un rumore distratto, che non ricorda il come e il quando ma sussurra disattento sottovoce, impreciso e inadatto. Il Papa parlava, e noi con le lacrime agli occhi ascoltavamo. Abbandonava la finestra per scendere tra la gente, ma la gente non c’era, scivolata nel buio, persa nel silenzio, nascosta nella paura. Dylan cantava di un omicidio disgustoso e il mondo respirava a fatica cercando l’assassino. Il mondo respirava a fatica cercando di sfuggire al suo destino. Il traghetto fermava le macchine, l’aereo i motori e il treno frenava il suo istinto. Così le distanze diventavano infinite, incolmabili. E l’Europa sghignazzava, l’Europa piangeva, l’Europa non esisteva. I bambini cantavano canzoni alla moda cambiando le parole. Seminavano ascolti e raccoglievano consensi. Vestito di blu, l’uomo al potere faceva lo stesso, mascherando un sorriso, metà intriso di soddisfazione, metà di sgomento. Mentre le prigioni esplodevano, quell’altro uomo rideva, si compiaceva della punizione. Il destino è nelle mani di ognuno, lo puoi conservare o te lo puoi giocare, ma non lo puoi riscattare. L’uomo, ora stretto in una camicia di forza, gioiva del suo vestito bianco, colore immeritato, come per una sposa già violata. E con la falce in mano, balbettava che ogni vittima varrà un perdono, ma una vittima non vale un condono. Le file di persone sembravano non finire, si formavano per ogni cosa. I carrelli circondavano i supermarket ed era come andare alla Mecca: giri lenti e silenziosi, in attesa del proprio turno, immersi nell’unico corridoio per la salvezza del corpo e dello spirito. E c’era il vecchio che rideva e saltava la fila. Lui aveva fatto la guerra, lui aveva combattuto e vinto – forse no, non ricordava bene – ma si era salvato, aveva vissuto e mai si era arreso. Il vecchio saltava e gridava: «Non è ora della fine, non è ora che debba finire!» Le sirene suonavano, venivano a prenderlo, per non permettergli di toccarci, per impedirgli di saltare. I camion dell’esercito trasportavano da una città all’altra i ricordi spenti, per renderli cenere, perché il vento ne avesse cura. Visto che gli uomini non ne erano più capaci. Sospirava il bassista ubriaco, affacciato alla finestra: suonava una sola nota, sempre la stessa, e il canto si levava, corale e maestoso, per ricadere sordo, rimbalzare muto e svanire per sempre. Poi iniziarono a sparire anche i giovani, e i sorrisi diventarono mesti. Oltre il passato e il presente, stavamo perdendo anche il futuro. Tentarono di trattenerlo con promesse e pentimenti, ma lui non ne volle sapere. Fuggì via in cerca del diverso, di quello inutile, dimenticato, che non aveva niente da perdere e niente da sognare. L’unico da salvare. Si strinsero allora le mani, dimenticando il divieto imposto, per tornare a sentirsi uniti. Ritornarono gli abbracci da tempo evitati e distanti. Si riavvicinarono le bocche, riaprendosi al desiderio e alla passione. Si smise di fuggire per rincontrarsi. Piangendo l’uno sulla spalla del l’altro. Il mare si placò fermando la sua tempesta. E il vento si appoggiò sul colle a osservare. Qualche nuvola passò, e pianse per un po’… Reno Brandoni L'articolo Il mondo respirava a fatica proviene da Fingerpicking.net.
(di Reno Brandoni) – Semplice elenco delle cose preziose: chitarre, vinili, dispenser di birra regalatomi dai miei figli, libro di Anthony Scaduto su Bob Dylan (origine di ogni mio capriccio…), Siddharta di Hermann Hesse e On the Road di Jack Keruac, foto dei miei genitori che non ci sono più, foto dei miei figli… I miei figli? Eh, no, scusate, forse sto sbagliando tutto: l’aver nominato gli affetti mi ha acceso dei ricordi che azzerano totalmente il potere di ogni oggetto sin qui nominato! Non ho elencato tra le cose preziose i sentimenti, quelli indelebili, quelli che nessuno ci può portare via. Ho sbagliato, lo ammetto. Posso fare a meno di tutto quanto è materiale, nulla di ciò – per quanto utile e piacevole – mi è indispensabile. Gli affetti veri invece no, a quelli non posso rinunciare. Il destino spesso ci impone di rivedere l’ordine delle priorità: ciò che ci sembrava fondamentale diventa superfluo, e quello che appariva inutile e vissuto distrattamente si trasforma in essenziale, quasi vitale. Ecco la parola maledetta su cui soffermarsi:distrazione; alimentata da un’altra parola terribile: abitudine. La somma dei due termini produce il disastro. Quando per abitudine non presti più attenzione a qualcosa che ritieni ormai consueta, ecco che perdi parte del suo valore. Riscoprirai la sua importanza quando, per la prima volta, la tua certezza verrà messa in discussione dalla mancanza. Mi è già successo un bel po’ di volte. Ed è una cosa che non impari, perché fino a quando non accade non puoi saperlo, e quindi non puoi evitarlo. La prima volta che l’ho capito è stato quando ho lasciato Messina per trasferirmi a Bologna. Entusiasmo ed eccitazione hanno accompagnato la mia scelta. Solo dopo qualche anno, affacciandomi sulla pianura padana, ho scoperto che mi mancava il mare. Quel mare che prima avevo sotto casa e che potevo raggiungere semplicemente passeggiando sul corso principale della città, allungando verso la stazione. Mi sono mancate le camminate, le lunghe chiacchierate con gli amici la notte sulla spiaggia, anche d’inverno, accompagnate da quell’indimenticabile profumo di conchiglie e scirocco. L’ho vissuto, così, distrattamente per quasi quarant’anni, tanto da non rendermi conto della fortuna e della ricchezza che avevo. Ora mi basta vedere una distesa colma d’acqua, per emozionarmi e per provare il desiderio di riscattare quel tempo. Vorrei tornare indietro e godere ogni giorno di quel patrimonio, di quel tesoro nascosto e dal valore incalcolabile. Il tempo, nella gioia e nel dolore, mi ha regalato altri momenti di riflessione, di pentimento, di inaspettata scoperta. Spesso protagonista è stata l’amicizia, un’altra forma d’affetto molto più complessa di quella familiare. Qui non si parla più di ereditarietà, ma di affinità. Il condividere un pensiero, un’opinione, l’avere un contrasto, anche feroce, ma lecito e leale, fa parte della nostra vita. Può diventare usualità. E proprio per questo trasformarsi in abitudine, e di conseguenza virare in distrazione. Questo periodo di quarantena è stato uno di quei momenti in cui gli amici sono diventati fondamentali. E la loro mancanza fisica si è sentita, sostituita da un continuo collegamento telematico, che tuttavia non può certo sostituirsi alla presenza e al contatto. Oggi, in particolare, è uno di quei giorni in cui nel mio percorso umano si riconferma la teoria dell’abitudine. E voglio farvene partecipi. Sin dal primo numero di Chitarra Acustica, con Andrea e Mario, abbiamo lavorato duramente a ogni numero della rivista. Con Mario abbiamo anche sviluppato tutta la collana editoriale di Fingerpicking.net. Questo è il nostro team, cuore e muscoli di questo progetto assurdo, ispirato dalla nostra passione. Questo mese Mario, per un suo momentaneo problema, non ha potuto prendere parte alle attività del gruppo. Luca Francioso ci sta dando una mano all’impaginazione, quindi riusciremo comunque a portare avanti il nuovo numero. Però… Ecco che la mancanza dell’amico emerge, si fa sempre più forte. Sono svanite le discussioni infinite, i progetti, le critiche sul ‘riflessivo’ Andrea su cui spettegolavamo alle spalle, ma con affetto e sincerità. La mancanza della spalla, della sponda, dell’amico fidato e sincero si sente. Momenti come questo servono a riconfermare le affinità, a farci capire che tutti questi anni hanno creato un rapporto indelebile di affetto e stima. Questa inaspettata lezione mi insegna una cosa nuova, che nella realtà già conoscevo, ma che negavo a me stesso. Tra una corsa e l’altra, conviene sedersi e aspettare, valutare con attenzione ogni cosa, rapporti, quotidianità, semplici banalità. Perché solo fermandoci possiamo permettere ai sentimenti di raggiungerci, visto che la fuga quotidiana spesso ci rende irraggiungibili. Buon fingerpicking! Reno Brandoni L'articolo Le cose preziose proviene da Fingerpicking.net.
Ho sognato che i laghi diventavano salati e il mare dolce. Se ciò accadesse veramente, pensate che disordine: trote e triglie sarebbero confuse, patirebbero l’indecisione su quale acqua frequentare. Sì, perché entrambe le immagino indecise e costantemente perplesse. I lucci poi guizzerebbero tra i faraglioni di Capri, seguiti da carpe (per affinità del nome con l’isola partenopea) e cavedani. Razze, meduse e polpi passerebbero il loro tempo risalendo fiumi e torrenti. I tonni più arditi, in compagnia dei delfini, rallegrerebbero quel ramo del lago di Como, che volge a ponente… L’inversione dei luoghi creerebbe la necessità di un adattamento. Ma la natura vede e provvede, dà a tutti una possibilità, permettendo – grazie all’accettazione – l’adeguamento. Sembriamo distanti da una simile eventualità. Ma in realtà, in natura, questa è già in atto. Una simile condivisione di luoghi e ruoli appartiene al mare, al luogo in cui convivono in equilibrio il maggior numero di etnie della terra: lì dove tutto ha avuto origine, dove il cambiamento e l’integrazione non ha fatto mai paura, anzi ha creato ulteriori opportunità all’evoluzione. Dal mare, la natura si è spostata ovunque, invadendo e conquistando spazi inaspettati. Accettare il cambiamento sembra una cosa intelli- gente. Tuttavia, stranamente, spesso non appartiene al popolo più evoluto, che rigetta ogni mutazione, ogni differenza, anche la più semplice come il colore della pelle. D’estate, tutti noi ci abbronziamo grazie al sole. Però è una variazione temporanea, accettata e apprezzata, al contrario di quella determinata dalla pigmentazione scura e definitiva, che non permette la serena accettazione dell’altro, timbrandolo come diverso. Ma c’è una differenza nel mondo tra chi porta gli occhiali e chi non ne ha bisogno? O tra i mancini e i destri, tra i grassi e i magri? Sembrerebbe di no. Ciò nonostante anche queste ‘categorie’ – nel tempo, e purtroppo ancora oggi – sono state vessate: ricordo epiteti come ‘quattrocchi’, ‘duecapelli’, ‘storto’ (per i mancini), ‘piatta’ (per le donne senza seno), ‘bombolo’ – o il più etnico ‘arancino’ – per quelli in sovrappeso… Be’, diciamo che il mondo dei cretini non si è mai estinto. E, su questa differenza, mi sentirei di osare una pesante e ossessiva discriminazione. Lasciatemi andare nel mare aperto lungo la costa. Lasciatemi risalire i fiumi fino alla sorgente. Lasciatemi la libertà di essere ora triglia ora trota, adattandomi all’ambiente che mi circonda, condividendo spazi e natura. Lasciatemi essere libero di essere. Buone vacanze e buon fingerpicking! Reno Brandoni L'articolo Il lago salato e il mare dolce proviene da Fingerpicking.net.
Da tempo avevo una curiosità: essendo un ‘estremo’ fan di Bob Dylan e conoscendo la sua riservatezza e la sua sobrietà, non comprendevo la necessità della ‘mascherata’ durante il famoso tour della Rolling Thunder Revue. Non sono un appassionato di travestimenti. Anzi, non mi sono mai piaciuti i Kiss proprio per questa ragione. Stimo Dylan, e questa sua non casuale insistenza nel coprirsi il volto mi sembrava anacronistica rispetto alla serietà del suo personaggio. Che bisogno aveva delle maschere? Oltretutto, da quello che leggevo, non erano un elemento opzionale, ma una componente fondamentale di tutto il tour. Lo stesso Dylan ne lamentava la mancanza. Dovevano essere in maggior quantità e a disposizione in abbondanza per tutti i membri della band. A Bob si perdona tutto, ma il tarlo del perché da anni mi perseguitava. Per fortuna il docufilm Rolling Thunder Revue: a Bob Dylan Story di Martin Scorsese ha risolto l’enigma. Probabilmente qualcuno, stupito come me da questo anomalo vezzo, ha posto la domanda al Nobel cantautore e la risposta è arrivata, nello stile consueto, secca e inappellabile: «Le persone mascherate dicono la verità». Tutto chiaro allora! Finalmente ho anche scoperto perché molti politici si tolgono la mascherina anticovid prima di fare le loro dichiarazioni. Ma questa è tutt’altra storia… Quando Dylan parla, non spara sentenze a vanvera. Dice una cosa ma ne intende almeno tre: le persone non dicono la verità, che cosa è la verità, la verità non esiste. Facciamo un esempio: la Gioconda di Leonardo Da Vinci è un capolavoro riconosciuto. Se io, da mascherato, dico che mi fa cagare, ho detto la verità. Ma in realtà non è la verità assoluta, è il mio vero pensiero, che non per forza deve corrispondere al giudizio altrui. Quindi cosa è vero? Il mio pensiero, quello degli altri, o il dire comune? Non esiste risposta. Ecco perché non esiste un’unica verità. Anche la legge lo sa: quando due giudici, nei due gradi di giudizio, giudicano diversamente un caso (quindi è possibile una doppia verità, che pertanto nega l’esistenza di un’unica verità), si accetta come vera quella più favorevole all’imputato. Ora poniamo un altro problema. Se io dico che un chitarrista non mi piace (sempre con la mascherina ben indossata, altrimenti direi che sono tutti straordinari), è un mio parere che può valere tanto o anche nulla. Dipende dal contesto. Ma se lo dice Tommy Emmanuel, ecco che il valore è diverso. Se Tommy dice «Non è bravo», allora bisognerebbe credergli. Ma non è bravo rispetto a chi? Il suo metro di giudizio sarà così estremo, che renderà il parere assolutamente personale e privo di quella verità di cui siamo alla ricerca. Il mascherarsi potrebbe coincidere con l’anonimato dei nostri amati social, in cui la gente – nascosta dietro le proprie tastiere – emette sentenze. Per carità, frutto del loro pensiero. Ma talune volte indecenti ed esagerate: il dispensare epiteti poco ‘carini’ nei confronti di chi – magari sconosciuto – fa outing, o di chi si mostra in costume con qualche chilo di troppo, è inaccettabile. Le parole feriscono, ammazzano, distruggono. Più di un colpo di pistola. Una pallottola o ti uccide, o ti attraversa lasciandoti ferito. Le parole invece si conficcano dentro come frecce avvelenate e lacerano ogni roccaforte, abbattono ogni possibile resistenza, trasformando la gioia di vivere in un inferno. Perché, per quale ragione, per quale necessaria verità? Forse allora preferisco la menzogna, o meglio ancora l’indifferenza e la distrazione, che nel mio personale vangelo sono usualmente termini sepolti e inutilizzati. Ogni tanto fa bene rispolverarli, per togliere la parola a chi la usa in maniera indecente e infamante. La libertà è un bene prezioso. Poter dire la verità lo è altrettanto, ma questa non deve offendere o limitare la libertà altrui. Se la verità assoluta non esiste, nessuno è depositario della assoluta certezza. E l’umiltà resta la virtù dei saggi. Quante domande… Ma la risposta, si sa, soffia nel vento. Buon fingerpicking! Reno Brandoni L'articolo Giù la maschera proviene da Fingerpicking.net.
#IoComproInItalia Intervista ad Aldo Aramini di Reno Brandoni Ho imparato nel tempo che le certezze non esistono. Ogni cosa nella nostra vita può essere ‘vittima’ degli eventi: progetti, piani, prospettive possono ribaltarsi inaspettatamente. E anche le convinzioni più consolidate possono svanire al primo colpo di vento. Bisogna essere forti e preparati per affrontare senza sgomento le situazioni controverse della vita. E probabilmente l’esperienza aiuta a far fronte all’incertezza, spiegandoci come reagire, suggerendoci calma e attenta analisi dei fatti. Questo vale in generale per tutte le circostanze della nostra esistenza, ma presenta un’efficacia maggiore nel business. Farsi trovare impreparati o troppo sicuri di sé, di fronte a un evento inaspettato, può essere un rischio. Le sorprese positive sono sempre ben accette. Il successo sottovalutato di un marchio o di un’idea possono stupire e rallegrare, e sicuramente aiutano la parte di self-confidence indispensabile per ogni imprenditore. Ma le novità negative sono quelle che mettono alla prova, che scandiscono la differenza, che fanno comprendere la qualità dell’individuo e dell’azienda. Prepararsi a ogni eventualità è indispensabile, quindi prudenza e attenzione non sono mai sufficienti. Ma preventivare un avvenimento come il COVID-19 è impossibile: si rimane travolti, attoniti, sfiduciati, preoccupati. Qualunque protezione o strategia non ha più senso: ci si trova scoperti, spesso indifesi. Ognuno di noi, giustamente, in questi mesi di lockdown ha pensato a sé stesso e ai propri familiari, ha cercato di portare a casa soltanto beni indispensabili, necessari per tutelare la sopravvivenza. Ma prima o poi sarebbe accaduto di fare i conti con il mercato, con quello che avevamo lasciato sospeso. Non vi nego che più di una volta ho cercato di pensare a quello che sarebbe stato il futuro della musica, dei negozianti che già sopravvivevano incerti tra mille difficoltà, dei distributori che hanno visto da un giorno all’altro svanire i loro punti vendita, forzati a una chiusura imprevedibile. Cosa sarebbe successo nessuno lo poteva anticipare e sicuramente, passata (ma non accantonata) la paura iniziale, molti hanno iniziato a costruire idee per il futuro, immaginando quali azioni intraprendere per salvaguardare, oltre ai propri interessi, anche quelli dei propri collaboratori e delle loro famiglie. Quanto il mercato è ripartito, o meglio, quanto le regole restrittive hanno consentito una maggiore libertà di movimento e il riavvio delle attività nelle aziende, gli addetti ai lavori hanno iniziato a osservare con attenzione le mosse e le strategie attuate dagli operatori principali del mercato musicale: i distributori. Tra le varie iniziative una mi ha colpito particolarmente. È stata l’invasione social di un messaggio che non pubblicizzava nessun brand e non dichiarava neanche la paternità del proprio ideatore: #IoComproInItalia. La curiosità iniziale è aumentata quando molti musicisti di chiara fama si sono esposti invitando i loro fan a comprare in Italia, per difendere quell’indispensabile network di commercianti che era già stato colpito – e quasi affondato – dal successo delle vendite online. Ci ho messo un po’ per collegare la campagna ad Aramini Strumenti Musicali. E questa cosa è stata particolarmente apprezzata in quanto l’invenzione di questo messaggio commerciale, oltre ovviamente a ‘nascondere’ una strategia, ha sensibilizzato l’acquirente verso un progetto e un comportamento etico che riguarda tutto il mercato della musica. Ho chiamato subito in azienda cercando di Aldo Aramini. Nel tempo ho imparato a conoscere il direttore commerciale della Aramini, che con i suoi due fratelli Roberta e Gianluca gestisce una delle maggiori attività distributive nel mercato musicale in Italia. Credo di conoscere bene Aldo e so che è una persona molto attenta sul lavoro, che lascia sempre da parte i facili entusiasmi per affrontate le proprie scelte commerciali con concretezza, attenzione e soprattutto prudenza. Ero curioso di conoscere la sua attuale visione del mercato e comprendere le modalità di questa nuova campagna. Vi riporto allora parte della nostra conversazione, in quanto ritengo possa essere di interesse per tutti. Da dove nasce l’idea?? L’idea nasce durante il periodo del lockdown. Con i miei fratelli Roberta e Gianluca, e il nostro collaboratore Davide De Tommaso, ci siamo interrogati su come sarebbe cambiato il mercato della musica dopo la quarantena. Una cosa ci è parsa evidente da subito: il nostro canale tradizionale, ovvero i rivenditori, avrebbe pagato un prezzo molto alto. Non solo per la prevedibile diminuzione del consumo di strumenti musicali, ma anche per l’ulteriore spostamento degli acquisti sul Web, soprattutto a favore dei grandi leader di mercato internazionali. Ci è venuta quindi naturale la più semplice, ma anche ambiziosa, delle contromosse possibili: utilizziamo la potenza del Web per comunicare un messaggio semplice e chiaro: #IoComproInItalia. E su questo possiamo avere il sostegno di tutta la filiera. E il settore, gli addetti ai lavori, hanno risposto come vi aspettavate? Inizialmente qualche diffidenza l’abbiamo trovata, ma ce lo aspettavamo. Abbiamo iniziato coinvolgendo i musicisti e chiedendo loro di produrre un breve video: senza citare la nostra azienda o i nostri strumenti, addirittura senza suonare, solo per trasmettere – ciascuno a modo suo – l’importanza di riscoprire i punti vendita italiani. La risposta non si è fatta attendere: dopo pochi giorni abbiamo cominciato a ricevere i primi video, belli e straordinariamente personali! È stato sorprendente scoprire come tante storie di successo abbiamo mosso i primi passi proprio dentro le mura di un negozio, tra uno sguardo all’oggetto del desiderio e qualche nota suonata con chi condivide la stessa passione! Poi, progressivamente, l’adesione è stata generale e tantissimi nomi della musica hanno contribuito. Possiamo citarne qualcuno? Vorrei citarli tutti, ma riempiremmo una pagina. I primi che mi vengono in mente: Luca Colombo, Saturnino, Lele Veronesi, ‘Fede’ Poggipollini, Chicco Gussoni, Max Cottafavi, Vince Pastano, Leo Di Angilla, Davide Ragazzon, Gigi Cavalli Cocchi, Mario Riso, Stefano Verderi, Mattia Tedesco… Ma vi invito ad andare sulla nostra pagina Facebook o Instagram per vederli tutti. Grazie a loro, in breve abbiamo raggiunto le 300.000 visualizzazioni, a cui vanno aggiunte quelle sui profili dei musicisti. Un risultato superiore alle nostre migliori aspettative. La difficoltà maggiore? Anche se siamo un’azienda commerciale, dovevamo comunicare che la posta in gioco oggi non siamo noi, bensì la sopravvivenza di un intero settore. Ogni acquisto fatto all’estero drena risorse non solo dal rivenditore italiano, ma da un intero settore fatto di produttori, distributori, negozi, musicisti, scuole, service, grandi e piccole produzioni! Se si vede la questione sotto questa prospettiva, possiamo lavorare tutti insieme nella stessa direzione, anche tra concorrenti. E il passo successivo? Invitare gli utenti a comprare in Italia significa anche assumersi la responsabilità di non deluderli. Abbiamo quindi individuato un insieme di prodotti, tutti di grandi marchi, che possa essere proposto dai rivenditori aderenti all’iniziativa a un prezzo molto conveniente, inferiore alle migliori offerte online. Chi accetta il nostro invito può anche trovare nel negozio un’opportunità di risparmio, e comunque un valore aggiunto di competenza, servizio e qualità che può anche giustificare un eventuale costo extra. Sembra tutto molto incentrato sulla figura del rivenditore: vi stanno seguendo? Sì, siamo molto soddisfatti. Pur con tutte le cautele del caso, stiamo ricevendo riscontri estremamente positivi. Molti hanno aderito con entusiasmo e stanno contribuendo in modo proattivo alla diffusione del messaggio. E altri stanno arrivando, siamo ancora all’inizio! Sul nostro sito www.aramini.net pubblichiamo tutti i rivenditori, regione per regione, che hanno già aderito; sui social pubblichiamo le foto delle loro vetrine allestite. E se ognuno riposta video e immagini, il risultato in termini di visibilità può essere straordinario. Uno sforzo comunicativo e commerciale importante per un distributore. Voi cosa ci guadagnerete? Rivenditore e distributore sono legati allo stesso destino, un destino che possiamo riscrivere insieme. L’e-commerce prima, e la pandemia dopo, hanno cambiato il mercato: dobbiamo trovare formule nuove e collaborazioni più ampie. #IoComproInItalia è un progetto che va in questa direzione. Quindi cosa ci guadagniamo? La cosa più importante: il futuro. Reno Brandoni L'articolo Io compro in Italia proviene da Fingerpicking.net.
(di Reno Brandoni) – L’incertezza ha diviso questa estate. Prima l’euforia e l’entusiasmo, poi il silenzio e la paura. Scrivere cercando di riassumere gli eventi è sbagliato, o perlomeno rischioso: quando questo numero del nostro mensile sarà pubblicato, lo scenario potrebbe essere totalmente diverso. Inatteso, imponderabile. Allora perché mi addentro nella faccenda? Perché tento di raccontare? Potrei semplicemente girarmi dall’altro lato e sorridere, tirando a campare. Invece no, sono qui a puntare il dito sulla follia, a sottolineare come la spavalderia e la totale mancanza di rispetto per l’altro incitino l’inciviltà del benessere. Ho visto giovani sogghignare sbeffeggiando il prossimo, che li difendeva utilizzando la ‘mascherina’. Li ho visti sfidare l’inopportunità, per uscirne sconfitti. Ho litigato con adulti e anziani, in fila al supermercato col volto scoperto. Non più solo i vecchi, quelli tanto ormai si sa, per alcuni sono destinati al macero… Ma anche quelli che dovrebbero avere a cuore il loro futuro. Come si fa a non sentire il dovere del rispetto? Come si fa a non riconoscere quando è il momento di dire basta alla superficiale leggerezza dell’essere, per impegnarsi nella ricerca profonda della tutela, soprattutto dei più deboli? La sfida sembra proprio quella che abbiamo sempre conosciuto e combattuto: deboli contro forti; o meglio, deboli sopraffatti dai forti. Qui i forti non sono i più ricchi, ma i più giovani o quelli che hanno ancora energia da spendere; mentre i deboli sono quelli che combattono contro gli acciacchi e i danni creati dal passare del tempo. Ho partecipato a qualche festival, come Time in Jazz di Paolo Fresu a Berchidda, ma ero nella lista anche di Giovanni Pelosi per Ferentino Acustica, cui ho dovuto rinunciare per l’oneroso costo del trasferimento Sardegna-Continente-Sardegna durante il mese di agosto (altro problema di cui mi piacerebbe discutere…). Stiamo parlando di due musicisti che hanno a cuore la musica e il rispetto per gli altri, e che hanno lottato per le loro manifestazioni cercando di realizzarle nel migliore dei modi con il massimo della sicurezza, dimostrando che rispettando le regole si può anche fare musica. Ci attende una stagione autunnale e invernale ‘calda’, non sappiamo cosa accadrà. Sicuramente tutti i più importanti eventi sono stati annullati e rimandati al prossimo anno. E questo non fa altro che incrementare la preoccupazione e la paura. Significa che non ci sono i presupposti per continuare, per rischiare. Ogni tanto penso che l’attesa sia la migliore consigliera, l’unica che ci permetta di vedere le cose dalla giusta angolazione. Forse sarebbe stato sufficiente stringere i denti e aspettare che il vento passasse, o che soffiasse dal lato giusto. Non sempre un po’ di calma è sintomo di quiete. Per quanto io ami la libertà, oggi il disordine è un lusso che non possiamo più permetterci. Io comunque sono qui, prigioniero di un sogno, anche se ormai i sogni sono sopraffatti dalla realtà. Buon fingerpicking! Reno Brandoni Chitarra Acustica: 2020 – 096,00€ Settembre 2020 Disponibile Chitarra Acustica: 2020 - 09 quantità Aggiungi al carrello Aggiungi alla lista dei desideri COD: CA-2020-09 Categoria: Chitarra Acustica Descrizione Informazioni aggiuntive Recensioni (0) Descrizione Settembre 2020 • Indice Ricominciamo… o forse no di R. Brandoni Immobilità di L. Francioso Acoustic Guitar Village: Cremona Musica ‘Special Edition’ – 26 e 27 settembre Madame Guitar: XV edizione – Tricesimo (UD) – 26 e 27 settembre La linea verticale di M. Giovannini Il mondo della sessualità popolare: chitarrine, mandolini e maliziose piantine di G. Gregori Incontro con la Gold Music: a colloquio con Gabriele Capogna di M. Alderotti Susanna Roncallo: dalla strada ai teatri di P. Selva Kythara (Enrico Maria Milanesi/Michele Pucci/Francesco Bertolini) Duets (Teja Gerken & Doug Young) Merci Dadi – 22 chitarristi per i 25 anni dell’ADGPA Italy (ADGPA Italy) A Violeta – Tributo a Violeta Parra (Giuditta Scorcelletti/Maurizio Geri) Believe (Palma Cosa) Tracciato (Susanna Roncallo) In duo: intervista a Teja Gerken & Doug Young di A. Lombardi Scarlet Rivera: una regina al pub di I. Sparacello A proposito di Dylan: adoro Fernanda Pivano di R. Brandoni Blues, ballate e canzoni di P. Mari • Amori e tradimenti in sessant’anni di live di F. Brusco Dylaniati di G. Cesaro • Mr. Bob Dylan di Dino Vinci Quello che penso del Menestrello di S. A. Calonego Chitarra acustica amplificata Takamine CP3NY ML Custom Pro 3 di Zack il Bianco Chitarra acustica amplificata K•Tar K0 Orchestra di D. Fornara Chitarra crossover Licari Zen Guitar di M. Giovannini La chitarra jazz per tutti – 23 di P. Anessi Guitarra flamenca – 18 di J. Lorenzo Irish Flatpicking – 30 di F. Bettoni Chitarra brasiliana – 26 di P. Mari Suono e canto – 22 di S. Grasso Basso acustico – 65 di D. Fiorenza Informazioni aggiuntive Peso 1 kg Tipo Prodotto Magazine Lingua Italiano Recensioni Ancora non ci sono recensioni. Solamente clienti che hanno effettuato l'accesso ed hanno acquistato questo prodotto possono lasciare una recensione. 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Adoro Fernanda Pivano di Reno brandoni Adoro Fernanda Pivano, è stata la mia ispiratrice per tanti anni. Bastava che accennasse a una storia o a un personaggio, ed ecco che si scatenava in me la tempesta della curiosità. Quella fastidiosa curiosità che ti costringe a cercare, a capire, che ti accompagna in ogni momento della quotidianità, che non conosce né giorno né notte, ma si placa ed evapora solo dopo che la conoscenza ha sostituito la turbolenta ricerca con la competenza. Una volta, lontani dal mondo di Internet, questa metodologia di studio fatta di personaggi, riferimenti e incroci era molto faticosa. Bisognava cercare, parlare, condividere, per scoprire questo o quel dettaglio che poteva aiutarci nel delineare il profilo di un artista. Molto era suggerito anche dalla fantasia: le parti mancanti venivano infatti colmate da deduzioni, così che il personaggio si trasformava a nostra immagine e somiglianza, e si arricchiva di aneddoti che, anche se inventati, pian piano diventavano reali e credibili per via della perseveranza nella ricorrente esternazione. Certamente plausibili. Dovrei parlare di Dylan e del motivo di questo ‘speciale’ su di lui. Ma inizio con Fernanda Pivano, perché… tra tutte le cose belle che ha fatto, una mi è suonata come una nota stonata. Vi racconto il fatto così come lo ricordo: in una serata dedicata a Fabrizio De André, Fernanda fece un’affermazione – a mio modo di vedere – eccessiva e priva di fondamento. Disse che quando si celebrava De André lo si indicava spesso come ‘il Dylan italiano’, mentre sarebbe stato più giusto affermare che Dylan era ‘il De André americano’. Era un evidente tentativo di captatio benevolentiae nei confronti del cantautore genovese, con un complimento di cui credo che lo stesso De Andrè avrebbe fatto oltretutto a meno, visto quanto era intollerante verso i paragoni e le etichette. Certamente un’uscita ‘involontaria’, benevola, ma fuori luogo. Lo spunto serve a far capire come il mito Dylan abbia invaso non solo la cultura americana, ma anche quella di altri popoli, come la nostra per esempio, alimentando il desiderio di una canzone ‘colta’: quella di denuncia, quella che Woody Guthrie aveva professato per tanto tempo e che Dylan aveva raccolto trasformandola, grazie all’intenso carisma di cui è dotato, in un evento sociale, di massa, trascinando un pubblico sempre più vasto, totalmente conquistato dalla sua parola. L’influsso dylaniano ha coinvolto molti dei nostri cantautori più originali e interessanti, che mai si sarebbero sognati di fare un distinguo o di prendere le distanze tra loro e il cantautore americano. Anzi, tradurre un brano di Dylan o trarre ispirazione dalle sue canzoni viene spesso celebrato come un vanto. Anche De André ha tradotto un paio delle sue canzoni, “Desolation Row” e “Romance in Durango”, e De Gregori aveva trovato ispirazione in “Winterlude” per la sua “Buonanotte fiorellino”. Addirittura, Francesco si è spinto oltre realizzando un intero album, Amore e furto, dove traduce e interpreta diverse sue canzoni. La ricerca del linguaggio, l’adattamento della parola nel rispetto di cadenze e rime rendono il lavoro di De Gregori un capolavoro assoluto, fondamentale per chi ama e segue Dylan senza il beneficio di una fluida comprensione della lingua. Da lì si può partire alla ricerca del perché, del modo e dell’origine, del senso e del costrutto. Anche Luigi Tenco si era misurato più volte con la traduzione delle canzoni del mito americano, riuscendo più o meno bene nel suo intento. Ma da cosa è data tanta grandezza? Qual è la ragione di un così potente carisma, che invece di affievolirsi cresce sempre di più col tempo e con l’età? Probabilmente molto è legato alla modalità con cui l’artista realizza ancora oggi, a oltre ottant’anni, il suo percorso creativo: sfidando l’ovvio, per dare spazio all’autonoma e personale visione delle cose. Non c’è quindi da stupirsi se dopo anni di silenzio e quintali di musica che non dicono nulla, una delle novità più interessanti di quest’anno porta proprio la sua firma. Il singolo “Murder Most Foul”, poi anche l’intero album Rough and Rowdy Ways, rappresentano una novità assoluta in campo musicale e artistico. È ancora una volta lui, l’inaspettato premio Nobel, che ci stupisce con la sua franchezza e la sua freschezza compositiva. Posso affermare che tutto il resto è noia? In “Murder Most Foul”, il racconto della morte di Kennedy è lo spunto per narrare una storia, quella dell’America, ma anche quella di tutta una generazione. È un lungo elenco di fatti e misfatti, di sogni e di musica. È un invito alla coscienza e alla conoscenza, dove la storia segna la traccia e la musica ne scava il solco. C’è un grande senso di umiltà e rispetto, una riconoscenza interiore, che accompagna lo smarrimento che stiamo vivendo. Basti dire che la canzone è stata pubblicata proprio il giorno in cui Papa Francesco tenne il suo discorso più doloroso: «Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca». E Dylan prosegue regalando la quiete, seminando consapevolezza e ricordando a tutti, smarriti per la perdita di un grande presidente, che nulla mai è perduto. A chi si dispera suggerisce di non piangere: «Tranquilli, bambini. Capirete / I Beatles tanno arrivando; vi terranno per mano». È un avviso alle generazioni. Dietro il buio c’è sempre una luce che ci attende. Robert Zimmerman, giovane ebreo nato a Duluth ma vissuto a Hibbing nel nord degli Stati Uniti, là «dove i venti soffiano forte sul confine», dopo la sua esibizione a Bologna durante l’incontro con i giovani organizzato in occasione del Congresso Eucaristico, si inchinò di fronte a Papa Wojtyla togliendosi il cappello, mostrando umiltà, rispetto e devozione. E il Papa stesso, in segno di riconoscenza e ammirazione, si alzò dalla sua sedia per stringergli la mano. Bob aveva già avviato la sua conversione al cristianesimo, sancita nel 1979 dall’album Slow Train Coming, ma con quel gesto rendeva onore al concetto di ossequio che nel tempo, tra i giovani artisti, si è perso lasciandosi sconfiggere e sopraffare dal potere della fama. Bob si è rimesso in discussione decine e decine di volte, cambiando posizione e modificando ogni percorso di successo, per non cadere mai nel banale, per non rischiare la noia del sedimento. Sin da ragazzo amava gli standard cantati da Frank Sinatra e gli sarebbe piaciuto replicarli. La sola idea fa sorridere: la sua voce nasale, roca, sgraziata, quasi stonata, non opportuna per cantare ‘alla Sinatra’. Eppure, grazie all’uso sapiente degli arrangiamenti, al nuovo suono delle sue chitarre e all’apporto di Charlie Sexton alla chitarra e Donny Herron alla steel guitar, che ritroveremo entrambi anche in Rough and Rowdy Ways, il sound diventa carismatico e la voce sgraziata di Bob diventa caratteristica e affascinante. Cinque dischi sfornati l’uno dietro l’altro per accontentare un sogno e regalarci un’altra impensabile folle avventura: Shadows in the Night (2015), Fallen Angels (2016) e il triplo Triplicate (2017). Non voglio raccontare la storia di Dylan. Molti degli amici che scriveranno di lui avranno modo di approfondire i vari aspetti. Citare “Blowing in the Wind” o “Like a Rolling Stone” potrebbe risultare quasi obsoleto rispetto alla figura di questo cantautore che ha accompagnato un’intera generazione. Allora, ecco che grazie a Fernanda Pivano possiamo almeno concretizzare una deduzione. La realtà non è che Dylan è il De André americano: Dylan è tutti noi, e tutti noi siamo in lui, perché di ognuno di noi conosce regole e abitudini, e le sa raccontare come neanche noi stessi siamo capaci di fare. Chapeau, Mr. Dylan! Reno Brandoni L'articolo A proposito di Dylan: Adoro Fernanda Pivano proviene da Fingerpicking.net.
(di Reno Brandoni) – Se esistesse una fiera dell’ovvio, questo potrebbe essere lo slogan giusto: «Se piove ci bagniamo». Quale altra sentenza potrebbe risultare più ovvia di questa! È naturale che se piove ci si bagna. È semplicemente una conseguenza del fenomeno atmosferico. Eppure, nel tempo, l’uomo ha imparato a mettere, a proprio beneficio, l’ovvio in dubbio. Prima riparandosi sotto gli alberi, poi dentro una caverna, successivamente inventando l’ombrello e infine l’impermeabile, arricchendo le città più piovose di portici e realizzando grandi gallerie e centri commerciali, dove è possibile muoversi e vivere fregandosene delle condizioni meteo esterne. Potreste ancora dire: «È ‘ovvio’ che se piove ci si bagna?» Forse no: bagnarsi in caso di pioggia non è più così ‘ovvio’, anzi può accadere solo in caso di distrazione. Quindi sarebbe più corretto affermare che se piove non ci bagniamo… Ecco allora perché non organizzano una fiera dedicata all’ovvio: perché ormai più nulla è consueto, e quello che davamo per scontato potrebbe risultare incerto e condizionato da mille altri fattori. Questa regola è applicabile a ogni cosa? Presuppongo di sì: non mi viene in mente nulla di ‘ovvio’ da difendere se non qualche reminiscenza giovanile del Bhagavad Gītā, dove si affermava – se ricordo bene – che le uniche cose certe (‘ovvie’) della vita sono la nascita per chi muore e la morte per chi nasce. Tutto il resto? Imponderabile! Perché tutto questo discorso? Forse per smontare ulteriormente le vostre certezze? Probabilmente sì. Lo sbandamento totale, in cui ci troviamo a causa del virus, frammenta e rende incomprensibile e incerta ogni nostra sicurezza. Noi che crediamo nella musica, nella gioia dell’esibizione e dell’intrattenimento, abbiamo capito che arte e cultura non sono più la base dello sviluppo di una civiltà, ma sono accessori che possono essere trascurati, ignorati o addirittura cancellati. In un mio libro di un anno fa, Filastrocche per sentirsi grandi, parlavo della fine della musica a causa dell’indifferenza. Era più importante evitare che il nostro smartphone potesse subire una qualsiasi limitazione, piuttosto che accedere a della musica cosiddetta ‘sbagliata’, cioè non supportata o sponsorizzata dalle major. Così, invece di lottare per riprenderci l’arte la facevamo morire, dimenticandola e ignorandola per sempre. Oggi, in pieno boom COVID, si discute sul numero degli spettatori ammessi a una partita di calcio, perché un pallone che rotola è ben più importante di una chitarra che suona. Così il nostro lavoro di musicisti svanisce, scivola nel dimenticatoio, nella stanza delle cose inutili, nel cassetto dei calzini spaiati, nella pasta al forno della domenica, improvvisata con le rimanenze della sera prima, nel singhiozzo inaspettato calmato da un bicchiere d’acqua o dal respiro trattenuto il più a lungo possibile… Ecco come viene considerata la nostra musica: un accessorio inutile che non merita né un tempo né un luogo. Sembra un discorso catastrofico ed eccessivo. Probabilmente lo è. Ma da questa parte del confine non vedo speranze, non vedo opportunità che non siano legate alla benevolenza e alla generosità di chi si sforza ancora di crederci. Tranne pochi casi felici, e molto ben poco remunerati, percepisco il silenzio e l’indifferenza. E inizio ad aver paura. Allora aspetto le prime piogge per ritornare bambino e poter correre all’aperto, con le scarpe nuove a calpestare pozzanghere, per riportare l’ovvio al suo stato naturale. Tanto, purtroppo, non c’è più la mamma che mi aspetta a casa per sgridarmi. Buon fingerpicking! Reno Brandoni Chitarra Acustica, ottobre 2020 L'articolo Se piove ci bagniamo proviene da Fingerpicking.net.
La notte in cui inventarono il rock Jimi raccontato agli adolescenti di Reno Brandoni / illustrazioni di Chiara Di Vivona Avevo in mente l’idea di un libro illustrato su Jimi Hendrix, dedicato ai più giovani. L’impresa era ardua da realizzare: bisognava convincere il coeditore, ma soprattutto i genitori dei possibili futuri lettori, che Jimi non era quel concentrato di ‘dissolutezza’ e perversione narrato nelle leggende della storia del rock. Jimi era un ragazzino come tanti, affamato dalla povertà, emarginato, discriminato a causa del colore della sua pelle e vessato per il suo mancinismo. Sembra strano soffermarsi su quest’ultimo punto, ma vi ricordo che negli anni ’50, negli Stati Uniti, chi usava la mano sinistra invece della destra veniva curato con l’elettroshock. Oggi rimaniamo stupiti, basiti e increduli nel sentire questa storia, ma così andavano le cose. Come dico sempre negli incontri con i ragazzi per presentare il mio libro: «Chissà quante risate si faranno domani i nostri posteri, nel ricordare quelle che noi, oggi, consideriamo ‘diversità’!» Ma torniamo a Jimi. Suo malgrado, fu costretto a suonare la chitarra nel modo ‘giusto’, utilizzando la destra invece della sinistra… L’obbligo di suonare la chitarra in maniera ‘innaturale’ rispetto al suo istinto lo aveva costretto ad avere una visione totalmente diversa, e forse innaturale, della struttura tecnico-musicale dello strumento. La sua attitudine lo portava a usarlo da mancino, ma – per non insospettire il padre, racconta il fratello – riuscì a sviluppare un’eccellente tecnica ‘ambivalente’, per cui era in grado di suonare un brano iniziando da mancino per concluderlo da ‘destro’ (e non da ‘giusto’) se sentiva dei passi arrivare nella sua stanza. Ecco cosa era Jimi, un ragazzo dai mille sogni, che viveva in una delle situazioni peggiori in cui si potesse trovare un giovane a metà del secolo scorso negli Stati Uniti. Ma era anche un grande talento. Curioso, disciplinato e costante nello studio del suo strumento. Un musicista dotato di grande personalità e carisma. Infatti fu notato subito per la sua bravura e ricevette un’offerta di lavoro persino da una star come Little Richard, che aveva bisogno di un chitarrista che lo accompagnasse nei suoi concerti. Jimi avrebbe potuto cambiare vita, avere un lavoro, essere ben pagato. Ma il desiderio di rappresentare sé stesso, di giocare le sue carte per riprodurre la sua musica, lo rendevano invadente facendolo allontanare da tutti. La sua musica era troppo prepotente, troppo caratterizzata e il pubblico, incuriosito durante i concerti, non guardava che lui. Troppo, anche per una star come Little Richard. Così ogni contratto di lavoro svaniva prima ancora di iniziare. Lo pregarono di adattarsi, di accettare sul palco un ruolo secondario, tanto da potersi guadagnare qualcosa per sopravvivere. Jimi, invece di modificare il suo ego in attesa di tempi migliori, preferì la fame pur di difendere la sua onestà intellettuale. Fu una scelta dolorosa che lo costrinse persino all’espatrio. Abbandonò gli Stati Uniti alla volta di Londra, cercando di conquistare un altro territorio, in quel momento più fertile e più vicino alla propria musica e alle proprie idee. Partì pieno di entusiasmo convinto che l’Inghilterra, in quel momento affascinata dal blues, sarebbe potuta diventare la sua nuova patria musicale. Ma partì soprattutto attratto dal desiderio di conoscere Eric Clapton, considerato all’epoca il ‘dio della chitarra’; infatti, nel presentare i concerti di quest’ultimo, si citava quasi sempre la frase «Clapton is God». Inutile raccontare dell’incontro tra i due: basti sapere che lo stesso Clapton rimase stupito e attratto dalla tecnica e dal suono di Jimi. Come lui altri personaggi che non potremmo certamente definire minori, per esempio i Beatles, gli Who, i Rolling Stone… ovvero, quasi tutta la scena inglese. In Inghilterra Jimi raccolse il successo che meritava e poté così tornare in America, da ‘straniero’ ma anche da eroe, conquistando il Monterey Pop Festival col suo gesto più inaspettato e famoso: quello di dar fuoco alla sua chitarra sul palco. Cos’è quindi Jimi? Un’icona del mal pensiero, della turbolenza depravata, un menestrello della cultura psichedelica delle droghe e degli stravizzi? Tutto questo potrebbe far parte della vita di ogni uomo, ma nel caso di un musicista serve solo per trasformarlo in un ‘artista maledetto’: così come piace tanto al pubblico, nascondendo la fatica e le vere ragioni del suo successo. Jimi invece era un extraterrestre venuto da una galassia lontana, mille anni avanti a noi. Aveva talento, competenza, spirito di abnegazione, determinazione, diffidenza verso le mode dettate dagli altri e sempre alla ricerca di un proprio modello, che rispecchiasse il più possibile il suo intimo più profondo. Ecco cosa racconto ai ragazzi sotto lo sguardo spaventato ma affascinato di genitori e insegnanti. Preoccupati che tra le tante storie emerga la parte più becera e irraccontabile del mito del rock. Io invece mi soffermo sull’impegno, sulle delusioni, sulle amarezze, sulla fatica necessaria per trasformare un sogno impossibile – altrimenti che sogno è – in realtà. Jimi ci insegna che ci si può lanciare, affrontando ogni ostacolo, fidandosi solo del proprio istinto e del proprio talento, anche contro tutto e tutti. Ecco cosa mi piace di lui, l’aver creduto intensamente in sé stesso. Reno Brandoni L'articolo La notte in cui inventarono il rock proviene da Fingerpicking.net.
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